LAVORO PRODUTTIVO E LAVORO IMPRODUTTIVO

Karl Marx [1]
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 9 dicembre 2014
OÙ NOUS SOMMES EN HIVER
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c) La polemica contro la definizione di Smith [2]

La polemica contro la distinzione smithiana fra lavoro produttivo e improduttivo restò principalmente confinata agli dii minorum gentium, di cui Storch è ancora il più importante. Non la si trova in alcun economista di qualche rilievo, di cui si possa dire che abbia fatto una scoperta qualsiasi nel campo dell’Economia politica. Essa è al contrario il cavallo di battaglia degli scrittorucoli di second'ordine, e in particolare dei compilatori di manuali scolastici, dei dilettanti del bello scrivere e dei volgarizzatori. Ecco le circostanze principali che hanno dato origine a questa polemica contro Adam Smith. 

1) Alla gran massa dei cosiddetti lavoratori «superiori» - funzionari statali, militari, artisti, medici, preti, giudici, avvocati, ecc., i quali in parte non solo sono improduttivi, ma essenzialmente distruttivi e tuttavia riescono ad appropriarsi della maggior parte della ricchezza «materiale», sia vendendo le loro merci «immateriali», sia imponendole a viva forza - non era affatto gradito essere classificati, dal punto di vista economico, nella stessa classe dei buffoni e dei servitori, apparire semplicemente come sfruttatori, parassiti dei produttori veri e propri (o piuttosto degli agenti della produzione). Ciò appariva né più né meno che una profanazione delle funzioni che fino allora erano state circondate da una specie di aureola e godevano di una venerazione superstiziosa. L'economia politica, nella sua epoca classica, al pari della borghesia stessa nel suo periodo di parvenu, si mostra severa e critica verso l'apparato statale, ecc. Più tardi intuisce - e ciò si mostra anche in pratica - e impara per esperienza che la necessità di tutte queste classi, in parte del tutto improduttive, scaturisce dalla sua propria organizzazione. In quanto quei «lavoratori improduttivi» non creano beni, e quindi la loro capacità di acquisto dipende interamente dal modo in cui l'agente della produzione intende spendere il suo salario o il suo profitto, o meglio in quanto sono necessari o si rendono necessari, sia per le malattie del corpo (come i medici), sia per le debolezze dell'anima (come i preti), sia per i conflitti degli interessi privati e degli interessi nazionali (come gli uomini di Stato, i giuristi, i poliziotti, i soldati), essi appaiono allo Smith, come allo stesso capitalista industriale e alla classe lavoratrice, come faux frais della produzione, da ridurre al minimo indispensabile e da ottenere al minor prezzo possibile. La società borghese riproduce, nella sua propria forma, tutto ciò che aveva combattuto nella forma feudale o assolutistica. L'occupazione principale, dei sicofanti di questa società, specialmente dei ceti superiori, sarà quindi quella di riabilitare teoricamente la parte semplicemente parassitaria di questi «lavoratori improduttivi», o anche di giustificare le esagerate pretese della parte indispensabile di essi. Di fatto fu proclamata la dipendenza della classe ideologica ecc. dai capitalisti. 

2) Ma una parte degli agenti della produzione (della stessa produzione materiale) venne dichiarata «improduttiva» ora da questo, ora da quell'economista. Per esempio, i proprietari fondiari furono dichiarati improduttivi da quella parte degli economisti che rappresentavano il capitale industriale (Ricardo). Altri (per esempio Carey) dichiararono lavoratori «improduttivi» i commercianti. Vi fu perfino chi dichiarò improduttivo il «capitalista» stesso, o per lo meno voleva ridurne le pretese alla ricchezza materiale al solo « salario», cioè alla retribuzione di un «operaio produttivo». Gran parte dei lavoratori intellettuali sembrò aderire a quest'opinione. Bisognava dunque trovare un compromesso e riconoscere la produttività di tutte le classi non comprese direttamente fra gli agenti della produzione materiale.
Una mano lava l'altra e, come nella favola delle api, si trattava di dimostrare che anche dal punto di vista «produttivo», economico, il mondo borghese, con tutti i suoi «lavoratori improduttivi» è il migliore dei mondi; tanto più che i « lavoratori improduttivi » si abbandonavano da parte loro a considerazioni critiche sulla produttività delle classi dei fruges consumere nati, o anche sugli agenti della produzione, come i proprietari fondiari, che non fanno niente e così via. Tanto i fannulloni, quanto i loro parassiti, dovevano trovare il proprio posto nel migliore ordinamento sociale. 

3) Mentre la dominazione del capitale si andava estendendo e anche le sfere produttive non direttamente rivolte alla creazione della ricchezza materiale divenivano in realtà sempre più strettamente dipendenti da esso, e specialmente le scienze positive (le scienze naturali) venivano considerate come mezzi al servizio della produzione materiale, i sicofanti subalterni della economia politica si credettero in dovere di glorificare e giustificare ogni sfera di attività ponendola «in connessione» con la produzione della ricchezza materiale, facendone un mezzo di essa; e così fecero di ogni uomo un «lavoratore produttivo» in senso « stretto», cioè un lavoratore al servizio del capitale, a esso utile in un modo o nell'altro, ecc. 

Di fronte a costoro, è sempre preferibile gente come Malthus che difende apertamente la necessità e l'utilita di «lavoratori improduttivi» e semplici parassiti.

d) Alcune idee sul lavoro produttivo prima e dopo Smith[3]

[Gia in Thomas Hobbes troviamo l'intuizione di una distinzione esistente fra lavoro produttivo e improduttivo. Nel suo Leviathan, pubblicato nel 1651, egli scrive:] 

Non basta che un uomo lavori per il proprio mantenimento, ma deve anche lottare, se ce n'è bisogno, per difendere la sicurezza del proprio lavoro. Bisogna, come facevano gli Ebrei dopo il ritorno dalla cattività babilonese nella ricostruzione del tempio, con una mano tenere la mestola e coll'altra la spada, oppure bisogna pagare qualcuno che combatta per gli altri (Leviathan, English Works oj Sir Th. Hobbes, ed. Molesworth, London 1839-44, III, p. 133). 

Secondo Hobbes è la scienza, e non il lavoro manuale, la madre delle arti «di utilità generale, come la costruzione di fortezze, la fabbricazione di macchine e di altri strumenti di guerra; esse rappresentano una potenza perchè contribuiscono alla difesa e alla vittoria. Ma, sebbene la loro vera madre sia la scienza, cioè la matematica, pure se ne attribuisce l'origine alla mano dell'artefice (artificer) che le realizza, come il volgo confonde la levatrice con la madre » [4]  (l. c., p. 75). 

[La scienza, nota prima Hobbes, viene generalmente sottovalutata, ed è una debole potenza perché può comprenderla solo chi l'abbia raggiunta in alto grado.]
Il prodotto del lavoro intellettuale - la scienza - è in effetti sempre molto inferiore al suo valore, poiché il tempo di lavoro necessario a [ri]produrlo non è mai proporzionato al tempo di lavoro che è stato necessario alla sua produzione originaria. Per esempio, uno studente può imparare in un'ora il teorema dei binomi.

Petty pone già la distinzione fra lavoratori produttivi e improduttivi. « Gli agricoltori, i soldati, gli artigiani (artizans) e i commercianti sono i veri pilastri di ogni società. Tutte le altre professioni sorgono dalle debolezze e dalle mancanze di queste; ma l'uomo di mare rappresenta tre di queste quattro categorie, poiché... è non soltanto marinaio, ma anche commerciante e soldato » (Political Arithmetick, ecc., London 1699, p. 177). «II lavoro del marinaio e i noli marittimi rientrano sempre nella categoria delle merci esportate, la cui eccedenza sulle importazioni fa affluire denaro nel paese » (l. c; pp. 178-79).
All'occasione Petty mette in evidenza i vantaggi della divisione del lavoro: «Coloro che dispongono del commercio marittimo, possono lavorare a noli minori con maggior profitto di altri che devono pagare noli più alti; infatti, come il vestito viene a costar meno se uno carda la lana, un altro la fila, un terzo la tesse, un quarto stende il panno, un quinto lo lustra, un sesto infine lo folla e lo cima... così coloro che hanno in mano il commercio marittimo» possono costruire differenti specie di navi per differenti scopi, imbarcazioni fluviali e marittime, navi da guerra e mercantili, ecc... « e questa io ritengo sia una delle varie ragioni per cui gli Olandesi possono navigare a noli più bassi dei loro vicini, poiché sono in grado di costruire un particolare genere di navi per ogni particolare genere di commercio » (pp. 179-80).
Del resto in Petty troviamo tutta la teoria smithiana, quando egli dice: se si tassano gli industriali, ecc. per dar denaro a chi è occupato in un genere di lavoro «che non produce alcun oggetto materiale né alcun oggetto di reale utilità e valore per la collettività, la ricchezza del popolo diminuisce. Sotto diversa luce però vanno giudicate le attività che ricreano e allietano lo spirito, le quali, impiegate moderatamente, predispongono l'uomo a occuparsi di cose che in sé sono più importanti » (p. 198). Una volta stabilito il numero degli operai necessari al lavoro industriale, «il resto può, senza danno per la collettività, essere impiegato nelle arti e negli esercizi del piacere e dell'abbellimento, di cui il più grande è il progresso realizzato nella conoscenza della natura » (p. 199). «L'industria frutta più che l'agricoltura, e il commercio più che 1'industria » (p. 172). « Un marinaio vale quanto tre contadini » (p. 178).
I seguenti passi da Petty, Treatise on Taxes and Contributions etc., London 1662 (citati secondo l'edizione del 1679), si riferiscono alla questione del lavoro produttivo e improduttivo. 

1. Preti 

Il nostro amico Petty ha una «teoria della popolazione» completamente diversa da quella di Malthus [5]. Secondo lui si dovrebbe imporre ai preti un «impedimento» alla procreazione e reintrodurre il celibato ecclesiastico.

Poiché in Inghilterra vi sono più uomini che donne..., i preti dovrebbero tornare al celibato, o almeno nessuno dovrebbe essere ammesso agli ordini sacri finché è sposato... E allora il nostro prete celibe potrebbe vivere altrettanto bene con la metà delle prebende di cui gode attualmente (pp. 7-8). [6] 

2. Commercianti e bottegai

Anche di questi una grossa parte potrebb'essere eliminata; in fondo essi non meritano niente dal pubblico, poiché non sono che una sorta di giocatori che si giocano fra loro la fatica dei poveri: essi non producono niente, e non fanno altro che ripartire, come le vene e le arteric, il sangue e i succhi nutritivi del corpo politico, cioè il prodotto dell'agricoltura e dell’industria (p. 10).

3. Avvocati, medici, impiegati, ecc.

Se si riducessero gli impieghi e gli emolumenti connessi con l'organizzazione statale, giuridica ed ecclesiastica, e si riducesse del pari la folla dei teologi, degli avvocati, dei medici, dei commercianti e dei bottegai, i quali ottengono vistose retribuzioni per i piccoli servizi che rendono al pubblico, quanto sarebbe più facile supplire alle spese della collettività ! (p. 11).

4. Indigenti e senza lavoro (supernumeraries). 

« Chi paga questa gente? Io rispondo: ognuno di noi... E’ chiaro, io penso, che non si possono lasciar morire di fame, né impiccare, né mandar via ». O si darà loro « il superfluo (the superfluity), oppure, se non ve n'é, bisognerà restringere, in quantità e qualità, il nutrimento degli altri » (pp. 12-13).

Poco importa quale sia l'attività da imporre ai senza lavoro, purché non dia luogo al consumo di merci straniere. L'importante è « di abituare il loro animo alla disciplina e all'obbedienza, e la loro forza fisica all'esecuzione paziente di lavori utili, per il caso che vi vengano impiegati ».
Potrebbero essere principalmente impiegati nella costruzione di strade, di edifici, di miniere, ecc. (p. 12). 

D'Avenant cita da un antico studioso di statistica, Gregory King, una tabella intitolata: Scheme of the Income and Expense of the several Families of England, calculated for the year 1688.
In questa tabella il King divide tutta la popolazione in due classi principali, l'una che accresce la ricchezza del paese, composta di 2.675.720 individui, e 1'altra, che la diminuisce, di 2.825.000 individui; la prima è dunque « produttiva », la seconda «improduttiva ». La classe produttiva comprende lords, baronetti, cavalieri, esquires, gentiluomini, funzionari alti e bassi, mercanti di mare, contadini, servi, ecclesiastici, proprietari fondiari, fittavoli, liberi professionisti, commercianti e bottegai, artigiani, ufficiali di marina. La classe « improduttiva » comprende invece marinai semplici (common seamen), operai agricoli e salariati nelle manifatture (labouring people and out servants), abitanti delle cascine (cottagers), i quali ai tempi di D'Avenant costituivano un quinto dell'intera popolazione inglese, soldati semplici, indigenti, zingari, ladri, mendicanti e vagabondi [7]. D'Avenant così spiega la tabella del King: 

Egli vuol dire che la prima classe della popolazione si mantiene con la terra, con le arti e con l'industria, e ogni anno aggiunge qualcosa al capitale nazionale, contribuendo, col suo superfluo, al mantenimento dell'altra. Quelli della seconda classe si mantengono in parte col proprio lavoro, ma il rimanente, come le donne e i bambini, sono nutriti a spese della prima e costituiscono un peso pubblico, poiché ogni anno consumano ciò che potrebbe essere aggiunto al capitale comune della nazione (D'AVENANT, An Essay upon the probable Methods of Making a People Gainers in the Balance of Trade, London 1699, pp. 36, 50).

[Hume nota nel suo saggio sull'interesse: ]

Avvocati e medici non producono niente, e non guadagnano le loro ricchezze che a spese degli altri, diminuendo così le ricchezze degli altri nella misura in cui aumentano le proprie (Essays, II ed., London 1764, II, p. 334).

[Esaminiamo ora alcuni autori posteriori ad Adam Smith sul lavoro produttivo e improduttivo.]
Sismondi (Nouveaux principes d'economie politique, I, p. 148) accetta la giusta spiegazione della distinzione smithiana (come è sottinteso anche in Ricardo): la distinzione reale fra classi produttive e improduttive è questa: « L'una scambia sempre il proprio lavoro col capitale di una nazione; l'altra lo scambia sempre con una parte del reddito nazionale ».
A questo proposito vi è anche un passo di Ricardo, in cui egli dimostra come sia molto più utile per gli « operai produttivi » che i proprietari del plusvalore (profitto e rendita fondiaria) consumino questo plusvalore in « lavoratori improduttivi» (per esempio in domestici), piuttosto che in oggetti di lusso prodotti dagli « operai produttivi ».
Ricardo dice: 

Se un proprietario fondiario o un capitalista spende il suo reddito alla guisa degli antichi baroni, per mantenere un ricco seguito o una numerosa servitù, impiegherà molto più lavoro che spendendolo in tessuti fini o mobili costosi, equipaggi, cavalli, o altri oggetti di lusso. In entrambi i casi il reddito netto e il reddito lordo sarebbero eguali, ma differenti sarebbero le merci in cui il primo sarebbe convertito. Se il mio reddito è di l0.000 lst., quasi eguale sarà la quantità di lavoro impiegato, sia ch'io lo converta in tessuti fini e mobili costosi, ecc., sia ch'io lo converta in una quantità di mezzi di sussistenza di pari valore. Ma se io converto il mio reddito in merci della prima specie, non do, per ciò stesso, impiego a una quantita maggiore di lavoratori. Mi godo i miei mobili e i miei tessuti e tutto finisce qui. Se invece converto il mio reddito in mezzi di sussistenza per dar così impiego a domestici, si verificherà un incremento della domanda di lavoro in ragione del maggior numero di persone, che posso impiegare col mio reddito di 10.000 lst. o con i mezzi di sussistenza che con tale reddito posso acquistare, e tale incremento della domanda può verificarsi solo perchè ho scelto questo secondo modo di spendere il mio reddito. Gli operai, essendo interessati alla domanda di lavoro, debbono naturalmente desiderare che la maggior parte possibile del reddito venga sottratta alla compera di oggetti di lusso per essere impiegata al mantenimento di domestici (RICARDO, Principles of Political Economy, cap. XXXI).

Come, dal punto di vista della produzione capitalistica, non sia produttivo l'operaio che produce, sì, merci vendibili, ma non oltre il valore della propria forza-lavoro, e che quindi non produce un plusvalore per il capitalista, si vede già da quei passi di Ricardo in cui la semplice esistenza di questa gente è definita un incomodo (a nuisance). Questa è la teoria e la prassi del capitale. 

Tanto la teoria quanto la prassi capitalistica di mantenere il lavoro al punto di poter produrre, oltre alle spese di mantenimento dell'operaio, anche un profitto per il capitalista, appaiono in contraddizione con la legge naturale che regola la produzione (HODGSKIN, Popular Political Economy, London 1827, p. 238). 

Malthus giustamente dichiara lavoratore produttivo quello « che aumenta la ricchezza del suo padrone » (Principles of Political Economy, II ed., London 1836, p. 474).
Bisogna aggiungervi anche questo passo: 

Il solo consumo, che a buon diritto può esser chiamato produttivo, è il consumo o l'annientamento di ricchezza compiuto dal capitalista ai fini della riproduzione... L'operaio, che il capitalista impiega, consuma certamente la parte di salario, che non risparmia, come reddito per il proprio mantenimento e i propri piaceri, e non come capitale a scopi produttivi. Egli è un consumatore produttivo per il datore di lavoro e per lo Stato, ma non per se stesso (MALTHUS, Definitions in Political Economy, ed. Cazenove, p. 30). 

Anche il signor J. St. Mill, nei suoi Essays on some unsettled Questions of Political Economy (London 1844), si affatica sul problema del lavoro produttivo e improduttivo. In realtà non fa che aggiungere alla seconda definizione smithiana l'idea che sono produttivi anche i lavori che producono la stessa forza-lavoro. 

Le sorgenti dei godimenti si possono accumulare e ammucchiare, ma non i godimenti stessi. La ricchezza di un paese consiste nella somma totale delle fonti durevoli di godimenti materiali e immateriali ch'esso contiene: il lavoro o la spesa, che tende ad aumentare o a conservare queste fonti durevoli, dev'essere chiamato produttivo (p. 82).
Se il meccanico, che fabbrica il telaio, è un lavoratore produttivo, allora è produttivo anche il filatore che sta imparando il suo mestiere; il loro consumo è consumo produttivo, cioè non tende a diminuire, ma ad aumentare le fonti durevoli di godimento del paese, poiché essi creano nuove fonti il cui prodotto è superiore al consumo (p. 83). 

e) G. Gamier [8]. 

Esaminiamo ora brevemente le baggianate contro A. Smith, sul lavoro produttivo e improduttivo.

1) Vediamo anzitutto le idee esposte da Germain Garnier nelle note al volume V della sua traduzione della Wealth of Nations (Paris 1802).
Gamier, sul lavoro produttivo in senso eminente, condivide l'opinione dei fisiocratici, che accetta in pieno pur con qualche attenuazione. Egli combatte la teoria smithiana secondo cui «il lavoro produttivo è quello che si realizza in un oggetto; quello che lascia traccia della sua attività e il cui prodotto può vendersi o scambiarsi» (l. c., vol. V, p. 169).
Le ragioni che egli adduce contro Smith sono state in parte ripetute dai suoi discepoli.
Contro la distinzione fatta da Smith, egli dichiara: 

Tale distinzione è falsa, poiché è basata su una differenza che non esiste. Ogni lavoro è produttivo nel senso in cui l'autore usa la parola produttivo. Tanto l'una quanto l'altra specie di lavoro sono egualmente produttive di qualche godimento, comodità o utilità per chi le paga, senza di che nessun lavoro troverebbe il suo salario.
Il lavoro è dunque produttivo perché produce un qualche valore d'uso, perché si vende, cioè perché ha un valore di scambio e quindi perché è merce. A illustrazione di questa tesi, Garnier adduce numerosi esempi in cui i lavoratori improduttivi fanno le stesse cose, producono lo stesso valore d'uso o la stessa specie di valore d'uso che i «produttivi». Per esempio, «la domestica che è al mio servizio, che mi accende il fuoco, che mi pettina, che pulisce e tiene in ordine i miei abito e i miei mobili, che mi prepara i cibi, ecc. presta servizi nienteaffatto diversi da quelli della lavandaia o della stiratrice, che lava e mette in ordine la biancheria dei suoi clienti..., da quelli del trattore, del rosticciere, dell'oste, il cui mestiere è di preparare i cibi agli avventori; del barbiere, del parrucchiere, ecc., ...

- che rendono servizi immediati [9]; infine del muratore, del copritetto, del falegname, del vetraio, del fumista, dello spazzacamino, del bottinaio, del ciabattino, ecc. e di quella folla di operai edili che si mandano a chiamare per riparazioni, e il cui reddito annuo proviene sia da lavori di riparazione e di manutenzione che da nuove costruzioni [10]. Questo genere di lavoro non consiste tanto nel produrre quanto nel conservare; il suo scopo non e tanto di aggiungere valore alle cose a cui si applica, quanto di prevenirne il deperimento. Tutti questi lavoratori, compresi i domestici, risparmiano, a chi li paga, il lavoro di manutenzione del suo patrimonio [11]; a questo scopo, e il più delle volte a questo solo scopo, essi lavorano [12]; dunque o son tutti produttivi o nessuno di essi è produttivo » (pp. 171-72). 

2) In un francese i ponts et chaussées, l'amministrazione delle strade e dei ponti, non possono mancare. Perché, egli dice, chiamare produttivo «il lavoro di un ispettore o di un direttore di un'azienda privata commerciale o industriale, e improduttivo quello di un funzionario dell'amministrazione statale che, provvedendo alla manutenzione delle strade pubbliche, dei canali navigabili e degli altri grandi strumenti che animano l’attività commerciale, vegliando alla sicurezza dei trasporti e delle comunicazioni e all'esecuzione dei contratti, può, a giusto titolo, essere considerato come l'ispettore della grande azienda sociale? E’ un lavoro assolutamente eguale, benché di più vaste proporzioni»
(pp. 172-73).
Una tale persona, in quanto concorre alla produzione, alla conservazione e alla riproduzione di cose materiali che potrebbero essere vendute se non si trovassero in mano dello Stato, Smith potrebbe chiamaria «produttiva». Gli « ispettori della grande azienda sociale » sono invenzioni francesi.

3) Qui Gamier cade nel « morale ». Perché deve essere produttivo il profumiere, che lusinga il mio odorato, e non il musicista che incanta il mio udito? (p. 173). Perché il primo, risponderebbe Smith, fornisce un prodotto materiale e il secondo no. La morale e il « merito » dei due individui non ha niente a che fare con la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo.

4) Non vi è contraddizione nel definire produttivi il «liutaio», il costruttore di organi, il mercante di strumenti musicali, ecc. ecc. e improduttive le professioni che si servono di questi strumenti? « Gli uni e gli altri hanno, come ultima meta del proprio lavoro, un consumo dello stesso genere. Se il fine che si propongono gli uni non merita di essere classificato fra i prodotti del lavoro della società, allora perché trattare più favorevolmente ciò che non è se non un mezzo per giungere a questo fine?» (p. 173).
Secondo questo ragionamento colui che consuma il grano è altrettanto produttivo di colui che lo produce. A quale scopo infatti si produce il grano se non per consumarlo? Se dunque il lavoro del consumatore non è produttivo, perché deve esserlo quello del coltivatore, che non è se non un mezzo per raggiungere questo scopo? Inoltre, potrebbe chiedere a Smith qualche filantropo indignato, chi mangia non produce cervello, muscoli, ecc., e non sono questi prodotti altrettanto nobili quanto l'orzo e il grano?
In primo luogo, A. Smith non dice che il lavoratore improduttivo non produce niente. Altrimenti non sarebbe in generale un lavoratore. In secondo luogo, può sembrar strano chiamare improduttivo il medico che prescrive le pillole e produttivo il farmacista che le prepara. E nello stesso modo produttivo il liutaio e improduttivo il violinista. Ciò dimostrerebbe soltanto che gli «operai produttivi» forniscono prodotti che non hanno altro scopo che quello di servire come mezzi di produzione per i «lavoratori improduttivi». Ma ciò non è più strano che dire che tutti gli operai produttivi forniscono, in fin dei conti, prima i mezzi per pagare gli improduttivi, poi prodotti che vengono consumati senza il minimo lavoro.

Di tutte queste osservazioni, il n. 2 rivela la mentalità francese che non può dimenticare i suoi ponts et chaussées, il n. 3 rivela un atteggiamento moralistico, il n. 4 o contiene la sciocchezza che il consumo è altrettanto produttivo che la produzione (ciò che è falso nella società borghese, dove uno produce e l'altro consuma), o vuol dimostrare che una parte del lavoro produttivo fornisce semplicemente il materiale per i lavori improduttivi, ciò che lo Smith non ha mai negato.
E’ esatta soltanto l'osservazione del n. 1, che cioè Smith, nella sua seconda definizione, chiama i medesimi lavori produttivi e improduttivi, o piuttosto è costretto, secondo la propria definizione, a chiamare produttiva una parte relativamente piccola del suo lavoro «improduttivo»; osservazione, quindi, che non invalida la distinzione in se stessa, ma la sussunzione nella distinzione, cioè la sua applicazione.
Dopo di che il pedante Garnier giunge finalmente al fatto: 

La sola differenza generale che, a quanto sembra, si può stabilire tra i prodotti delle due classi immaginate da Smith, è questa: nei prodotti della classe che egli definisce produttiva vi è, o può sempre esservi, qualche intermediario fra il produttore e il consumatore, mentre in quella che egli definisce improduttiva non può esservi alcun intermediario, ma il rapporto fra salariato e consumatore è necessariamente diretto e immediato. E’ evidente che esiste necessariamente una relazione diretta e immediata fra colui che beneficia dell'esperienza del medico, dell'abilità del chirurgo, del sapere dell'avvocato, del talento del musicista o dell'attore, o infine dei servizi del domestico, e ciascuno di questi differenti lavoratori al momento del loro lavoro; nelle professioni che compongono l'altra categoria invece, essendo l'oggetto destinato al consumo una cosa materiale e palpabile, esso può, prima di arrivare dal produttore al consumatore, passare attraverso numerosi intermediari (p. 174).

In queste ultime parole Garnier mostra, senza accorgersene, l'intima connessione esistente fra la prima definizione smithiana (è produttivo il lavoro scambiato contro capitale, improduttivo quello scambiato contro reddito) e la seconda (è produttivo il lavoro che si fissa in una merce materiale, vendibile, improduttivo l'altro). Spesso, lavori che non si fissano in una merce non sono suscettibili, per la loro stessa natura, di essere assoggettati al modo di produzione capitalistico; per gli altri ciò è  possibile. Qui si prescinde completamente dal fatto che nella produzione capitalistica, in cui la maggior parte delle merci materiali e tangibili è prodotta da operai salariati sotto la dominazione del capitale, i lavori [improduttivi] (o i servizi, sia quello della prostituta che quello del papa) non possono essere pagati che dai salari degli operai produttivi o dai profitti di coloro che li impiegano (e di chi partecipa a questi profitti); si prescinde dal fatto che questi operai produttivi creano la base materiale del mantenimento e quindi dell'esistenza dei lavoratori improduttivi.
Ma è una delle caratteristiche di questo noioso chiacchierone, che vuol essere economista, e quindi indagatore della produzione capitalistica, il considerare come fattore non essenziale ciò che fa di questa produzione una produzione capitalistica, cioè lo scambio di capitale contro lavoro salariato, invece dello scambio diretto di reddito contro lavoro salariato, o del reddito che il lavoratore paga direttamente a se stesso. In tal modo la produzione capitalistica stessa diventa una forma non essenziale, invece di essere una forma necessaria, sia pure solo storicamente, e quindi temporaneamente necessaria, per lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro e per la trasformazione del lavoro in lavoro sociale.
Gamier continua:

Bisognerebbe anche eliminare dalla classe produttiva tutti gli operai il cui lavoro consiste semplicemente nel pulire, mantenere e conservare cose già prodotte, e che quindi non ammette nella circolazione un prodotto nuovo (p. 175). 

Smith non dice in alcun punto che il lavoro e il suo prodotto devono entrare nel capitale circolante. Il lavoro può entrare direttamente nel capitale fisso, come quello dei meccanici che riparano le macchine in una fabbrica. Ma allora il suo valore entra nella circolazione del prodotto, della merce. E gli operai che eseguono riparazioni, ecc., a domicilio, non scambiano il loro lavoro contro capitale, ma contro reddito.

E’ a causa di questa differenza che la classe improduttiva, come ha notato Smith, vive soltanto di reddito. Infatti, non ammettendo questa classe alcun intermediario fra se e colui che consuma i suoi prodotti, cioè colui che fruisce del suo lavoro, essa è direttamente pagata dal consumatore. Ma questi non paga che con reddito. Al contrario, i lavoratori della classe produttiva, essendo generalmente pagati da un intermediario che si propone di trarre un profitto dal loro lavoro, sono per lo più pagati con un capitale. Ma questo capitale è in definitiva sempre ricostituito dal reddito di un consumatore, altrimenti non circolerebbe e quindi non renderebbe alcun profitto al suo possessore. 

Quest'ultimo « ma » è assolutamente puerile. In primo luogo, l'affermazione di Garnier che l'intero capitale è in definitiva sempre ricostituito dal reddito del consumatore è falsa, poiché una parte del capitale è ricostituita da capitale e non da reddito [13]. In secondo luogo, è in sé e per sé stupida, poiché il reddito stesso, nella misura in cui non è salario (o salario pagato dal salario, reddito derivato da esso), rappresenta il profitto del capitale (o reddito derivato dal profitto del capitale). Infine è stupido affermare che la parte di capitale che non circola (nel senso che non è ricostituita dal reddito del consumatore) «non puo rendere alcun profitto al suo possessore ». Effettivamente - restando immutate le condizioni di produzione - questa parte non dà alcun profitto (o piuttosto non dà alcun plusvalore). Ma senza di essa il capitale in generale non potrebbe produrre il suo profitto. 

Tutto ciò che si può concludere da questa differenza è che, per impiegare lavoratori produttivi, è necessario non solo il reddito di chi fruisce del loro lavoro, ma anche un capitale che dia profitti agli intermediari, mentre per impiegare lavoratori improduttivi è per lo più sufficiente il reddito che li paga (p. 175).

Questo passo è una tale accozzaglia di cose senza senso, che è evidente che Garnier, il traduttore di Smith, non ha in realtà capito tutto Smith e in particolare non ha intuito l'essenza della Wealth of Nations, cioè che il modo di produzione capitalistico è il più produttivo, e lo è certamente in confronto alle forme precedenti.
Anzitutto è assai sciocco obiettare a Smith, il quale ha definito come lavoro improduttivo il lavoro direttamente pagato dal reddito, che « per impiegare lavoratori improduttivi e per lo più sufficiente il reddito che li paga ». Vediamo ora il caso opposto! « Per impiegare lavoratori produttivi è necessario non solo il reddito di chi fruisce del loro lavoro, ma anche un capitale che dia profitti agli intermediari ». Chi sa allora come sarà produttivo il lavoro agricolo del signor Garnier, in cui, oltre al reddito di chi fruisce del prodotto della terra, è necessario anche un capitale che non solo dà profitti agli intermediari, ma dà anche una rendita fondiaria ai proprietari terrieri.
Per «impiegare lavoratori produttivi », non è necessario prima un capitale che li impieghi e poi un reddito che fruisca del loro lavoro, ma semplicemente un capitale che crei il reddito che gode il frutto del loro lavoro. Supponiamo che io, come sarto-capitalista, spenda 100 lst. in salario, e che queste 100 lst. mi rendano, per esempio, 120 lst. Avrò un reddito di 20 lst. che mi permetterà, se lo voglio, di fruire del lavoro del sarto sotto forma di vestiario. Se io acquisto, al contrario, capi di vestiario per 20 lst. allo scopo di indossarli, allora è chiaro che questi capi di vestiario non mi hanno creato le 20 lst. colle quali li compro. La cosa non cambia se io faccio venire a casa un garzone-sarto per farmi cucire vestiti per 20 lst. Nel primo caso io ho ricevuto 20 lst. in più di quelle che avevo prima, mentre nel secondo caso ho, dopo la transazione, 20 lst. in meno di quelle che possedevo prima. Del resto non tarderei ad accorgermi che il garzone-sarto, che io pago direttamente con reddito, fa i vestiti più cari che se li comprassi dall'intermediario. Garnier si immagina che il profitto venga pagato dal consumatore. Il consumatore paga il valore della merce; e questa merce, benché contenga un profitto per il capitalista, viene a costare al consumatore meno che se egli avesse speso direttamente il suo reddito in lavoro per far produrre, su scala minima, ciò di cui ha personalmente bisogno.
Qui e evidente che Gamier non ha la minima idea di ciò che è capitale. Egli prosegue:

Ma molti lavoratori improduttivi, come gli attori, i musicisti, ecc., non ricevono per lo più i loro salari attraverso un direttore che trae profitti dal capitale investito in questo genere d'intrapresa? (pp. 176-77). 

Questa osservazione è giusta, ma dimostra semplicemente che una parte dei lavoratori, che Smith chiama improduttivi nella sua seconda definizione, sono produttivi secondo la prima. 

Ne consegue che in una società, dove la classe produttiva è molto numerosa, deve supporsi una grande accumulazione di capitali nelle mani degli intermediari o imprenditori del lavoro (p. 176). 

In effetti: lavoro salariato in massa è solo un'espressione diversa per capitale in massa. 

Non è dunque, come pretende Smith, la proporzione esistente fra la massa dei capitali e quella dei redditi che determina la proporzione fra la classe produttiva e la classe improduttiva. Quest'ultima proporzione sembra dipendere piuttosto dai costumi e dalle abitudini del popolo, dal maggiore o minore grado di sviluppo della sua industria (p. 177). 

Se gli operai produttivi sono quelli pagati dal capitale, e gli improduttivi quelli pagati dal reddito, è evidente che la classe produttiva sta alla improduttiva come il capitale sta al reddito. Ma l'accrescimento proporzionale delle due classi non dipende soltanto dal rapporto esistente fra la massa dei capitali e la massa dei redditi, ma anche dal rapporto in cui il reddito crescente (profitto) si converte in capitale o è speso come reddito. Benché la borghesia fosse originariamente molto economa, la produttività crescente del capitale, cioè degli operai, l'ha portata a imitare le corti feudali. Secondo l'ultimo rapporto (1861) sulle fabbriche, la cifra complessiva delle persone (compreso il personale amministrativo) impiegate nelle fabbriche vere e proprie del Regno Unito ammontava a sole 775.534 unità [14], mentre il numero delle domestiche ammontava, soltanto in Inghilterra, a un milione. Che bella organizzazione! Una ragazza deve sudare per 12 ore in una fabbrica perché il principale, con una parte del lavoro non pagatole, possa prender al suo servizio personale la sorella di lei come serva, il fratello come stalliere, il cugino come soldato o poliziotto.
L'ultima proposizione di Garnier è un'assurda tautologia. Il rapporto fra classi produttive e improduttive non dipende dal rapporto fra capitale e reddito, o meglio dal rapporto fra le masse delle merci esistenti che vengono spese sotto forma di capitale o di reddito, ma dai costumi e dalle abitudini del popolo, dal grado di sviluppo della sua industria. In realtà la produzione capitalistica sorge solo a un grado di sviluppo industriale abbastanza elevato.
Come senatore bonapartista, Garnier ha naturalmente un debole per i lacchè e i servitori. 

A pari numero di individui, nessuna classe contribuisce, più di quella dei domestici, alla conversione in capitali delle somme derivanti da redditi (p. 181). 

Effettivamente, da nessun'altra classe si recluta una parte così abbietta della piccola borghesia. Garnier non capisce come Smith, « un uomo così ricco di acume », non stimi di più «quell'intermediario che sta al lato del ricco per raccogliere le briciole del reddito che questi dissipa con tanta noncuranza» (p. 183).
« Raccoglie » le briciole del reddito. Ma in che cosa consiste questo reddito? Nel lavoro non pagato degli operai produttivi.
Dopo questa pessima polemica contro Smith, Garnier dichiara, ricadendo nella fisiocrazia, che il lavoro agricolo è l'unico lavoro produttivo! E perché? Perché esso «crea un valore nuovo, un valore che non esisteva nella società, neppure come equivalente, nel momento in cui questo lavoro ha iniziato la sua azione; ed è questo valore che fornisce una rendita al proprietario fondiario» (p. 184). Che cos'è dunque il lavoro produttivo? E’ il lavoro che crea un plusvalore, che crea un nuovo valore oltre l'equivalente che esso riceve come salario. Ora, non è colpa di Smith se Garnier non capisce che scambiare capitale contro lavoro altro non significa che scambiare una merce di valore dato, cioè eguale a una data quantità di lavoro, con una quantità di lavoro maggiore di quella contenuta nella merce stessa, e così « creare un valore nuovo, un valore che non esisteva nella società, neppure come equivalente, nel momento in cui questo lavoro ha iniziato la sua azione ». 

Nel 1796 il signor G. Garnier aveva pubblicato a Parigi l’Abrégé élémentaire des Principes de l'Economie Politique. Insieme alla teoria fisiocratica che il lavoro agricolo è il solo produttivo, troviamo qui l'altra teoria, che spiega in gran parte la sua polemica contro Smith, che il consumo, rappresentato soprattutto dai «lavoratori improduttivi », è la sorgente della produzione, e che la grandezza di quest'ultima è la misura della grandezza del primo. I lavoratori improduttivi soddisfano i bisogni artificiali e consumano prodotti materiali e quindi sono utili in ogni modo. Perciò egli polemizza anche contro il risparmio. Egli scrive a p. XIII della sua prefazione: «II patrimonio di una persona aumenta per i suoi risparmi: il patrimonio della società (fortune publique), al contrario, si accresce per l'aumento del consumo». E a p. 200, nel capitolo sul debito pubblico: «Il miglioramento e la conservazione dell'agricoltura, e quindi il progresso dell'industria e del commercio, non hanno altra causa che l'accrescimento dei bisogni artificiali». Da ciò conclude che il debito pubblico e utilissimo poiché aumenta questi bisogni.
Per il legame che unisce il sistema del consumo e la teoria dell'utilità economica delle grandi spese del Garnier alle dottrine fisiocratiche, è importante la seguente osservazione di Schmalz, questo epigono tedesco della fisiocrazia. 

Ancor più, essa (la fisiocrazia) attribuisce al loro (dei consumatori) stesso consumo il merito di elevare indirettamente il reddito della nazione. Infatti, se essi non esistessero, ciò che consumano non sarebbe prodotto e i proprietari fondiari non ne trarrebbero vantaggio! (Staatswirtschaftslehre in Briefen, p. 287). 

Nella sua critica della distinzione smithiana fra lavoro produttivo e improduttivo, scrive il medesimo Schmalz: 

Tanto meno farò notare come la distinzione smithiana fra lavoro produttivo e improduttivo apparisca del tutto secondaria, quando solo si consideri il valore vero e proprio che in generale ha il lavoro degli altri, cioè che esso ci risparmia tempo [15]. L'ebanista che mi fabbrica un tavolo e il servitore che mi porta la lettera alla posta, mi pulisce i vestiti, ecc., mi rendono entrambi lo stesso identico servizio: mi fanno risparmiare tempo, e tempo doppio; in primo luogo, il tempo che io dovrei impiegare adesso per fare da me quel lavoro; in secondo luogo, il tempo che avrei dovuto impiegare per acquistarne l'abilita (l. c., p. 274).

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[1]  - Karl Marx, Storia delle Teorie Economiche, Giulio Einaudi editore, Torino 1954 (introduzione di Marice Dobb, traduzuine di Elio Conti). Pagg. 275-295.
[2] - Pp. 315-16 del manoscritto K.
[3] - Questo paragrafo è una raccolta di passi dalle pp. 1297, 318, 1346, 1347, 316, 317, 1294, 1333, 764 del manoscritto. K.
[4] - Hobbes scrive ancora: « Il valore (value or worth) di un uomo, come quello di tutte le altre cose, è il suo prezzo; cioè quel tanto che si pagherebbe per utilizzarne la forza » (p. 76).
In un altro passo dice: « Il lavoro di un uomo (e l'utilizzazione della sua forza lavoro) è parimenti una merce, scambiabile con un beneficio (benefit), come ogni altra cosa » (p. 233).
In Hobbes il lavoro è pure l'unica sorgente di ogni ricchezza, a eccezione dei doni di natura direttamente consumabili. Dio (la natura) o « dona gratuitamente (freely) o vcnde per lavoro all'umanità » (p. 232). Ma in Hobbes è il sovrano che distribuisce a suo piacere la proprietà e la terra. [« II sovrano assegna a ciascuno un pezzo di terra come egli crede giusto e conforme all'interesse generale, senza tener conto del parere di uno qualsiasi o di un certo numero dei suoi sudditi » (p. 234).] 
[5] - Cfr. a questo proposito anche il passo seguente: « Una popolazione poco numerosa rappresenta una povertà reale, e una nazione di 8 milioni di anime è due volte più ricca di un’altra che, su un territorio della stessa estensione, ne cota solamente 4 milioni » (p, 16).
[6] - Petty parla dei preti con squisita ironia. « La religione tanto più fiorisce quanto più mortificati (mortified) sono i preti, come il diritto... tanto più fiorisce, quanto meno da fare hanno gli avvocati » (p. 59). In ogni circostanza egli consiglia « di non educare (breed) ecclesiastici in numero superiore alle prebende disponibili secondo l'attuale ripartrizione ». Se l'Inghilterra e il Galles non disponessero, per esempio, che di 12000 prebende, « allora non sarebbe consigliabile di tirar su 24000 ecclesiastici..., altrimenti i 12000 rimasti senza beneficio sarebbero obbligati a guadagnarsi da vivere, e a questo scopo il sistema più semplice sarebbe quello di convincere la popolazione che i 12000 beneficiati avvelenano lc anime dei fedeli, oppure che le affamano e non sanno guidarle sulle vie del cielo » (pp. 59-60). E’ un'allusione  alla gierra di religione in Inghilterra.
[7] - [Cfr. la tabella del King in G. M. TREVELYAN, Storia della società inglese, traduz. it., Einaudi, Torino 1948, p. 353].
[8] - Pp. 318, 319, 347, 350, 356, 357, 358, 400, 421 del manoscritto K.
[9] - Ma la maggior parte di questa gente, sccondo Smith, non fa parte degli operai produttivi, così come non ne fa parte la servitù.
[10] - Adam Smith non dice mai che il lavoro, che si fissa in un oggetto più o meno durevole, non possa essere tanto una riparazione quanto una nuova costruzione.
[11] - Si possono dunque considerare come macchine per la conservazione del valore, o piuttosto del valore d'uso. Questo motivo del  “risparmio” di lavoro sarà ripreso in seguito, come vedremo, da Destutt de Tracy. Il lavoro improduttivo dell'uno non diventa produttivo per il solo fatto di risparmiare lavoro improduttivo all'altro. Uno dei due compie questo lavoro. Una parte del lavoro improduttivo di Adam Smith diventa necessario a causa della divisione del lavoro, - e quella parte del lavoro improduttivo che è assolutamente indispensabile al consumo e che quindi fa parte, per così dire, dei costi di consumo, - ma solo a condizione di far risparmiare tempo a un operaio produttivo. Ma Smith non nega i vantaggi di questa «divisione del lavoro». Tuttavia, il fatto che senza la divisione del lavoro, la quale facilita e accelera ogni specie di attività, ciascuno sarebbe obbligato a compiere sia lavoro produttivo che improduttivo, non cambia il fatto che uno di questi lavori è produttivo mentre l'altro è improduttivo.
[12] - Perché uno risparmi il lavoro di servire se stesso lo devono servire in dieci; strana maniera di «risparmiare» lavoro. Senza contare che questa specie di «lavoro improduttivo » è impiegato per lo più da gente che non ha niente da fare.
[13] - A questo punto, Marx ha fatto seguire un excursus troppo lungo che io, per non interrompere la continuità, ho rinviato all'appendice del capitolo precedente sotto il titolo Scambio fra capitale e capitale. K.
[14] - Return to an Address of the House of Commons, datato 24 aprile 1861, ma stampato l’11 fcbbraio 1862.
[15] - Qui egli fa questa confusione: il « risparmio » di tempo prodotto dalla divisione del lavoro non determina il valore di una cosa, ma io ottengo, per il medesimo lavoro, più valore d’uso, cioè il lavoro diventa più produttivo perché, in un tempo eguale, è fornito un quantum di prodotto maggiore. Ma come eco dei fisiocrati egli non può naturalmente trovare il valore nel tempo di lavoro stesso.